Chi sono

“Questa terra è vostra. Ma voi dovete proteggerla: non sarà vostra a lungo se non la difendete, se è necessario con la vostra vita e con la vita dei vostri figli. Non sottovalutate i vostri nemici: essi torneranno.” (Viva Zapata!)
Nei miei ricordi di infanzia c’è sempre un angolo dell’Italia incastonato fra mare e montagne. Sullo sfondo, guardando all’orizzonte, Capo Palinuro e l’isola di Dino. Un pezzetto di terra staccato dal resto del mondo. Piccolo, ma così immenso quando si vedeva da un pedalò. Questo pezzo del Bel Paese è sulla costa tirrenica della Calabria: Praia a Mare. Il mio paese. Qui ho vissuto buona parte della mia vita. Qua nasce il mio amore per la natura, l’ambiente e un forte senso di responsabilità verso ciò che ci circonda. Praia era un piccolo borgo di pescatori e contadini. Non conosceva cemento e niente sapeva sull’industrializzazione. Poi arrivano gli anni ‘50, la ricostruzione post Seconda Guerra Mondiale e i soldi della Democrazia Cristiana. Qualche imprenditore decide di investire in questo profondo sud dove la mattina ha l’odore della brezza marina e la sera si illumina con le luci delle lampare. Il primo a piantare tenda è il conte Rivetti, un ricco industriale biellese. Fra Praia e Maretea sorgono alcune imprese tessili: un lanificio nella vicina Basilicata, un’azienda di tessuti per la casa e la Marlane, in cui si producono stoffe. Questa, negli anni, da “officina” si è trasforma in un luogo di veleni. Passando fra le mani dell’Eni e di altri proprietari, nel 2004 chiude definitavamente i battenti con la gestione Marzotto, lasciando centinaia di persone a casa. Un processo aperto troppo tardi e prove esistenti ma introvabili rendono la causa (civile e penale) lunghissima. Nel 2014, il verdetto finale: “il fatto non sussiste”. Tecnici e industriali assolti. La verità sulla morte di 108 operai salta al prossimo grado in giudizio. Ancora in corso, ovviamente.
E’  questa storia di danno ambientale- che in Calabria non è l’unica- e di lotta operaia che forse mi porta ad essere così tanto “arrabbiata” verso le ingiustizie indirizzate alla natura e ai più deboli. E’ qui che germoglia la voglia di indagare, conoscere, raccontare. Di dare voce. Di non fermarmi. In questi anni ho dovuto dire addio alle persone vicine a me senza poter fare nulla perchè un cancro le ha portate via. Ho visto il mio paese cambiare sotto tonnellate di cemento. Boschi bruciare; campagne essere arse da un caldo asfissiante e da una siccità mai ricordata dagli annali. L’Italia cadere a pezzi con l’abusivismo edilizio, spazzando via un numero troppo alto di vite. Ho sentito dire “il clima è impazzito” quando gli unici pazzi siamo noi- uomini e donne- tutte le volte in cui compiamo gesti apparentemente innocui ma con un impatto gravissimo sulla terra.
C’è che il nostro Pianeta si sta surriscaldando e a breve ne vedremo gli effetti anche noi, sebbene ora si mostrino ferocemente nei Paesi più poveri. Si conta che al 2050 avremo almeno 250 milioni di migranti ambientali; più di quelli che oggi si muovono ma vengono cacciati via dall’Europa perchè “non riconosciuti”. E noi, se non si inverte la rotta, quale fine faremo? Forse occorrerebbe iniziare a chiederci come saremo e come staremo fra 10, 15, 20 anni. Chissà che forse non saremo noi, poi, gli “stranieri” e le “straniere” a scontrarsi contro muri e recinti.
<<La minaccia del cambiamento climatico si inscrive nello spirito dell’epoca e lo perfeziona: ci troviamo in uno di quei momenti noiosi della storia in cui nessuno ha una buona idea su cosa aspettarsi dal futuro, e allora ci dedichiamo a temerlo. Il presente è sempre scontentezza garantita; mi piacerebbe allora sapere perché certi presenti producono futuri di speranza e altri futuri di terrore. Qualcuno potrebbe leggere la storia del mondo a partire da questa dicotomia: le epoche che aspettano il loro futuro, quelle che lo guardano con paura». (“Qualcosa la fuori”, Bruno Arpaia)
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Trovate qualcosa che scrivo su Comuneinfo, Il Manifesto, questa pagina e il mio blog sui migranti: “Opentheborders: storie oltre muri, recinti e confini”.